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Se tu penserai e giudicherai
Da buon borghese
Li condannerai a cinquemila anni
Più le spese
Ma se capirai se li cercherai
Fino in fondo
Se non sono gigli son pur sempre figli
Vittime di questo mondo
(Fabrizio De André, "La città vecchia")
Ultimo aggiornamento: 08 Gennaio 2023 (Nivôse - Marbre)
Di cosa si tratta - La donne - Le sartine - Il gioco e il dormitorio - Considerazioni finali
Di cosa si tratta
Stavolta a dire che il titolo è completamente sbagliato, non sono io ma Agostino Contò nello scritto introduttivo,
che accusa esplicitamente l'editore dell'infelice scelta (solo del titolo però, per il resto la scelta di questa pubblicazione è stata quanto mai intelligente).
Aggiungo a questo che se nel 1997 "I misteri di Verona" era un titolo sbagliato, oggi sarebbe totalmente fuorviante,
andrebbe sicuramente confuso con tutta la bibliografia esplosa negli ultimi decenni in cui i titoli sono dati da il nome della città associato ai termini "misteriosa" o "mistero",
e in cui i contenuti sono delle guide alternative che segnalano monumenti a sfondo esoterico o legati leggende di fantasmi, o semplicemente ad aneddoti e curiosità varie.
Di cosa si tratta invece?
Questo libro non è altro che una ristampa di un volume uscito nel 1898, anzi più precisamente la ristampa di alcuni capitoli del secondo volume dell'opera di
Arturo Pomello "Verona sconosciuta", che aveva per sottotitolo "Verona che fu" per il primo volume, e "Verona che è" per il secondo.
Il primo volume è stato tralasciato perché altro non è che la sintesi di documentazioni storiche,
mentre il secondo volume è un vero e proprio
reportage, ad un passo dal
giornalismo investigativo,
fatto in prima persona dall'autore con una tecnica e una visione piuttosto moderne per l'epoca.
Pomello fu redattore de "L'Adige" e del "Gazzettino", collaboratore de "La Cronaca Rosa. Giornale letterario settimanale" e autore di diverse pubblicazioni.
Il suo stile porta bene i suoi anni, non è quello di un giornalista contemporaneo, ma non ha neanche quella pomposità assurda ottocentesca,
proseguita in molti casi per tutta la prima metà del novecento.
E qual é l'oggetto dell'investigazione da parte di Pomello?
Ce lo dice l'editore nella prefazione della prima edizione:
Verona, in Italia, gode fama di città gentile, di città colta; [...]
Vernice, signori miei, nient'altro che vernice.
Grattate un pochino l'intonaco della superficie, internatevi un momento, ma con coraggio, senza sdilinquimenti ridicoli, nei quartieri più poveri di Verona;
visitate le case dell'operaio, le case più schifose dei più schifosi vicoli della nostra città; e vedrete la corruzione, la miseria e il delitto svolgersi,
tenuto conto delle proporzioni, con tutti gli orrori dei quartieri miserabili di Londra.
Ecco quindi che il titolo sbagliato acquista una minima attenuante: voleva essere un richiamo colto ai feuilleton, ai romanzi d'appendice come "I misteri di Parigi" di Eugène Sue o "I misteri di Marsiglia" di Émile Zola. Citazione colta ma fuorviante: questo è un reportage, non un feuilleton.
La donne
Se la miseria in generale è il soggetto principale, in pratica quasi tutto il libro (o perlomeno quest'edizione, quindi solo alcuni capitoli del volume originale)
verte su un aspetto particolare: la prostituzione, quindi la situazione femminile nel contesto generale della povertà.
In effetti ha senso: tra i poveri, le donne erano sicuramente quelle messe peggio.
Ecco quindi che il libro si apre con un capitolo sulla prostituzione, e qui il Pomello è tranchant:
la prostituzione nasce dall'indigenza, dalla povertà, dalla miseria, dalla disperazione.
Le poche eccezioni non inficiano la regola.
E l'autore porta ad esempio il caso emblematico di "una fanciulla, certa Elvira", rimasta orfana a soli tre anni,
accolta malamente da dei parenti che appena hanno potuto l'hanno scaricata.
La infelice cercò di occuparsi come fantesca, ma fu sempre respinta perché vestita di quei panni della miseria che ci repugna descrivere.
Che doveva fare allora cotesta debole creatura quando le si rifiutava perfino il lavoro?
Quando la fame, questa grande mezzana, venne a bussare senza pietà alla porta della sua misera stamberga? [...]
Due sole vie le eran dischiuse: la prostituzione o la mendicità.
La scelta non fu dubbia. I regolamenti di polizia tollerano l'una e vietano l'altra. [...]
Per due lunghi mesi la vedemmo spesso, [...] aggirarsi nelle nostre vie nell'ora tarda della notte, lungo i muri, come una larva di Virgilio o un'ombra di Dante.
Poscia non più; la disgraziata era morta all'ospedale di quel mare terribile, inesorabile che sembra si diletti a colpire le sue vittime nella freschezza della vita ...
Ell'era morta di consunzione.
Ma non c'è solo la miseria: "il primo fabbro che scava l'abisso dentro cui precipita la vergine" è l'uomo.
L'accusa è chiara e la mancanza di ipocrisie dell'autore è ammirevole.
Si prosegue poi con un capitolo sui postriboli, per i quali qualche malpensante potrebbe ipotizzare che l'autore sembra avere una troppo buona conoscenza.
Ma avendo letto il capitolo precedente (ma anche i successivi) direi che non ci sono dubbi sull'integrità morale di chi scrive.
Ci vengono elencati quindi il "Valdanello" in vicolo Disciplina, forse il più lussuoso, poi scendendo di un gradino la "Gradela", per studenti e sott'ufficiali dell'esercito,
e poi giù ancora il "Bentivoglio" ("che squallore, che tanfo, che miseria").
E ancora dietro l'Arena, alle Seghe a San Tommaso, il Codalunga ...
Se nel capitolo successivo, "I quartieri dei poveri", sembra affrontare l'argomento in modo più ampio, in realtà si finisce sempre lì, anzi peggio.
Intendiamoci: belle le descrizioni di questi quartieri, dove l'autore si aggira con un poetico vagolare.
Però alla fine del vagabondare si finisce in certe case dove le mogli si vendono con la compiacenza dei mariti, e dove poi, volendo, si tocca anche il fondo:
Nella seconda stanza piccola come un guscio di noce, c'è un letto solo, uno di quei letti che volgarmente si chiamano di una persona e mezza.
In quel letto riposano due ragazze, due fiori veramente. Dormono abbracciate in una posa scultoria.
Le pieghe del letto si sono alquanto scomposte, né le belle dormenti si sono avvedute che espongono agli sguardi indiscreti il tesoro dei loro sodi contorni.
[...]
Non è la prima volta che essa conduce a quella stanza un uomo; ma la sciagurata non si è ancora potuta abituare all'idea di essere la lenona delle proprie sorelle.
Ma l'ultimo scrupolo è vinto.
La fame e le seduzioni del piacere hanno consigli a cui è vano tentar di resistere.
Le belle dormenti vengono fatte svegliare.
Le sartine
Con quanta poesia, con quanta delicatezza, con quanto amore Pomello si sofferma sulle sartine.
In un'epoca pre-industria delle confezioni, questo mestiere era evidentemente molto diffuso,
e l'autore ci spiega che la maggior parte delle giovani donne dedite a questo lavoro erano orfane che dovevano badare alla propria sussistenza.
Guadagnavano dagli ottanta ai novanta centesimi al giorno per dodici ore di lavoro, dalle otto di mattina alle otto di sera.
Guadagnavano cioè il giusto per sopravvivere e per qualche piccolo ornamento al vestiario, considerato anche come investimento per il futuro,
perché evidenziare la propria bellezza poteva servire per conquistare un giorno il principe azzurro.
Le cose in realtà andavano diversamente nella maggioranza delle volte, e questo duro lavoro rappresentava in pratica l'anticamera per la prostituzione.
E sempre lì si torna.
Il meccanismo è spiegato bene nel capitolo dedicato al carnevale.
In questo giorno dell'anno per cui "semel in anno licet insanire", veniva organizzato un ballo per e dalle classi più povere.
In questo ballo le sartine rappresentavano per lo più la parte femminile, e per questo ballo esse sognavano e risparmiavano,
ma alla fine venivano schiacciate da un meccanismo inesorabile: durante il ballo alle donne venivano distribuite arance e limonata,
mentre agli uomini veniva dato vino, "troppo vino" specifica Pomello.
Il ballo degenerava inevitabilmente, la poesia era persa e per quelle che in quella notte sacrificavano la propria verginità il futuro si chiudeva.
Il gioco e il dormitorio
Pochi altri argomenti non convergono sulla condizione femminile, però forse questa mia impressione è data dalla selezione dei capitoli,
mentre l'opera originale risulta più distribuita.
Tra questi il gioco, inteso ovviamente come gioco d'azzardo.
Nomi d'antan come "macao", "lanzichenecco" e "zecchinetta" potranno anche suonarci poetici cosparsi della patina del tempo,
ma in realtà erano sinonimo di rovina per molte famiglie.
La ludopatia colpisce da sempre più duramente le classi più povere e all'epoca era una vera piaga.
Delizioso infine il racconto della notte passata all'albergo, da un affittaletti per i poveri.
Pare di sentire la puzza, l'odore di miseria che aleggia nella camerata in comune.
E dopo la visita dei questurini il desiderio sessuale si accende nella camerata, in quegli uomini non ancora distrutti dal lavoro giornaliero,
e la scelta ricade sul più giovane e sbarbato.
Il capitolo si chiude come
"La sventurata rispose"
di manzionana memoria: "L'uomo-donna si è assicurata la colazione per domani".
Considerazioni finali
Da veronese ho trovato questo libro assolutamente affascinante.
E' stata un'emozione trovare nei posti conosciuti e usuali di Verona un mondo così totalmente diverso.
Certamente imbruttito, miserevole, penoso, ma allo stesso tempo romanticamente eroico.
Lo stile di scrittura un poco risente necessariamente dell'epoca, ma nel complesso questi capitoli sembrano assolutamente attuali.
La denuncia sociale è moderna, seppur attutita per la stessa ammissione dell'autore:
Se fummo costretti a smorzare le tinte se dovemmo, nelle sua colonne angolari, disfare quasi tutto l'edilizio delle nostre ricerche,
la colpa diciamolo ancora una volta, non è stata nostra.[...]
Data una diversa condizione di ambiente, noi avremmo non solo sviscerate le piaghe della prostituzione, del delitto, della imprevidenza,
su cui non abbiamo fatto che sorvolare pour cause, ma per di più ci sarebbe piaciuto, e calzava col nostro programma,
di dir qualcosa, anzi molte, moltissime cose, sulle schifose camorre di taluni istituti di credito, di certe opere pie,
di qualche ufficio municipale e governativo.
Ma sul vero vraghinaròda, sul vero "nemico del popolo", Pomello non ha dubbi: è la borghesia.
Il fattore di tutte le mostruosità sociali è la borghesia, questo terzo stato trionfante nel proprio egoismo e che crepa beatamente d'indigestione nei suoi retrobottega. Una rivoluzione può annientare l'aristocrazia ed il clero, come annienterà un giorno il militarismo; ma la tirannide borghese non teme le rivoluzioni, essa si impone troppo colla magia del denaro e del credito.
Evidentemente il
"Manifesto del Partito Comunista
scritto da Karl Marx e Friedrich Engels fra il 1847 e il 1848 e pubblicato a Londra il 21 febbraio 1848", qualcosa doveva aver portato anche nella reazionaria Verona.
Una soluzione ai mali della miseria viene proposta dal Pomello in modo pacato e ragionevole, contestualmente all'approvazione della riforma del codice Sanitario,
che se così com'era poteva lasciare perplessi, in realtà avrebbe potuto funzionare se:
Educate le masse, sradicate il pregiudizio, promuovete il sentimento della dignità personale, sollevate il pauperismo, sventrate i quartieri poveri, [...] e vedrete che la legge, non più impastoiata nella sua applicazione, riabiliterà col tempo la prostituta, la sottrarrà al monopolio del lenone e del ladro, le restituirà tutte le caste virtù della donna, e la tornerà purificata, amante e madre, fra le braccia dell'uomo onesto.
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Autore: Arturo Pomello
Titolo: I misteri di Verona
Tipologia: brossura
Dimensioni: 20,8 x 14,5 cm
Pagine: 112
Editore: Bonato editore
Anno di pubblicazione: Maggio 1997 (originale 1898)
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