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Un film sull'assenza di un sentimento, di un'ideologia;
sulla frammentazione e sullo sbriciolamento contemporaneo.
Comincia che è già finito, non ha un finale perché neppure ha un inizio.
È soltanto una passeggiata, un percorrere il nostro tempo e i nostri giorni,
che ha un certo punto s'interrompe nel modo più pertinente: con uno sberleffo.
(Federico Fellini su "La voce della luna")
La critica italiana su "La grande bellezza" - La trama (succinta come gli slip della Ferilli nel film) - La morte - L'acqua - Il nulla - Il sacro e il profano - Fellini
La critica italiana su "La grande bellezza"
Io che non sono né un cinefilo né tantomeno un critico cinematografico, sono piuttosto titubante nello scrivere di un successo internazionale come "La grande bellezza" di Paolo Sorrentino. Lo faccio perché dieci anni dopo la sua uscita mi rendo conto che in realtà sono pochi quelli che lo hanno visto, ma lo faccio anche perché se da un lato la critica internazionale l'ha osannato, dall'altro una parte della critica italiana l'ha accolto con una certa freddezza, se non addirittura stroncato come Nanni Delbecchi:
Magari La Grande Bellezza si accontentasse di essere un brutto film. È piuttosto "un’esperienza emotiva inedita", come ha scritto Walter Veltroni sul Messaggero di ieri. Parte come film inspiegabile finché, mentre cerchi invano una spiegazione, non ti accorgi che è pure inguardabile, una specie di paradosso visivo considerata la bravura di Sorrentino con la macchina da presa. Ma tutti quei movimenti di macchina, quei piani sequenza mimetici e sinuosi come le spire di un boa, quei primi piani intenti a stanare la mostruosità del quotidiano e l’ambiguità della bellezza, si rivelano altrettanti vicoli ciechi.
Una stroncatura così sonora ad un film che mi ha entusiasmato meritava un piccolo approfondimento, quindi sono andato alla ricerca su chi è Nanni Delbecchi,
e volevo anche leggere la versione di Walter Veltroni quindi ho cercato "un’esperienza emotiva inedita Walter Veltroni Messaggero" e,
sorpresa, mi sono uscite tutte le citazioni e i riferimenti alla stroncatura di cui sopra.
A pensar male si fa peccato (e diciamo pure che spesso ci si indovina) ma sembra quasi un effetto
Erostrato: ad incendiare il tempio dell'oscar dedicato a Sorrentino
poi passi alla storia del giornalismo.
La biografia del giornalista poi, non l'ho trovata su Wikipedia ma sul sito del
Teatro Menotti dove ho scoperto che lavora per la
Class Editori, quindi praticamente per
"MF/Milano Finanza, MFFashion, periodici (Capital, Class, Gambero Rosso, Gentleman, Patrimoni, MFF, MFL, MF International, Global Finance e Lombard in inglese, Gentleman, Eccellenza Italia [...]
Inoltre, offre servizi e formazione ad aziende e privati. È specializzata nell'eccellenza del Made in Italy: Fashion, Finance, Food & Beverage, Furniture".
Mi sembra un ambito che dovrebbe trovare parecchi clienti in quella mondanità derisa e umiliata dal film.
Con questo non voglio assolutamente dire che ci sia un conflitto di interesse, e non lo dico perché a pensar male si fa peccato!
Quindi invece di pensar male, entriamo nel merito e vediamo se veramente questo film è "inspiegabile" e se i movimenti di macchina,
i piani sequenza e i primi piani portano veramente a dei "vicoli ciechi".
Lo so: non passerò alla storia.
La trama (succinta come gli slip della Ferilli nel film)
Cercherò di essere più sintetico di Wikipedia.
Il protagonista, Jep Gambardella alias (il mitico) Toni Servillo, è un giornalista che ha appena compiuto i sessantacinque anni,
e che dopo aver scritto un libro di straordinario valore e successo quarant'anni prima poi non ha scritto più nulla.
Fa il giornalista per una rivista di gossip e partecipa molto attivamente alla vita mondana di Roma, al punto da essere considerato il "re dei mondani".
Il film non fa altro che mostrarci questa vita, questi incontri, queste feste, l'inconsistenza totale di tutto ciò
di cui gli stessi protagonisti sono consci.
Parallelamente "la bravura di Sorrentino con la macchina da presa" (unica cosa su cui posso concordare con Delbecchi) ci mostra l'emergere di un pentimento e di una crescita in Jep,
che sfoceranno nell'affermazione finale di voler scrivere un altro libro.
Questi passaggi da una festa all'altra, da un personaggio all'altro, e per contrapposizione da una bellezza di Roma all'altra, hanno fatto sì che Alessandra Starace,
pur elogiando nettamente il film, l'abbia definito "un film disorganico, opulento, frammentario e sfacciato".
Mi chiedo solo se ha visto e come può aver commentato un capolavoro come
Inland Empire di David Lynch
(cit. da Wikipedia: "L'autorevole rivista del British Film Institute Sight & Sound l'ha indicato fra i trenta film chiave del primo decennio del XXI secolo"),
per il quale "disorganico, opulento, frammentario e sfacciato" potrebbero essere degli eufemismi.
La morte
A voler pensar bene, forse quello che ha spiazzato chi andava seguendo la retta via della catarsi tragica, è che Sorrentino è andato completamente contromano,
fregandosene dei segnali del conformismo: in questo film non si celebra la vita del protagonista fino ad arrivare alla sua morte, solitamente epica e quindi catartica,
ma si va dalla morte alla vita.
L'inizio, apparentemente completamente slegato dal resto del film, ci mostra subito la morte, e a scanso di equivoci, senza metafore, ci mostra la morte fisica.
E' l'unico punto del film in cui questo avviene; le altre due morti non ci verranno mostrate direttamente, ma verranno sottintese.
Fornisco una breve descrizione per chi non ha visto o non ricorda.
Siamo sul Gianicolo, davanti alla
Fontana dell'Acqua Paola,
da cui parte la discesa lungo il bosco Parrasio di
cui parlavo la settimana scorsa (a proposito dei gradi di separazione).
E' giorno, è mattino credo, c'è un signore tipicamente romano in canottiera stereotipo anni '50 che si sciacqua nel fontanone,
e sull'altro lato c'è un pullman di turisti orientali con la guida che illustra il monumento.
Una scena normale, quotidiana, se non fosse che c'è un coro che da sopra la fontana canta "I Lie" (letteralmente "Io giaccio") di David Lang, una musica lenta e, come promette il titolo,
funerea. Uno dei turisti si stacca dal gruppo e va a fotografare la veduta di Roma dalla balconata: sorride, è palesemente felice e appagato dalla vista,
poi all'improvviso stramazza per terra e muore. O sviene? Il regista non ce lo dice, ma io propendo per la prima ipotesi.
E' una scena che richiama fortemente ad una tematica cara a
Thomas Mann, e penso in particolare a "La morte a Venezia" (ma non solo): l'associazione bellezza e morte.
Non la classica contrapposizione di Eros e Thanatos, amore e morte, nella quale Freud identifica l'amore come "pulsione di vita",
ma la contemplazione della bellezza che si associa al compimento della morte.
Anche se il Gustav von Aschenbach di Mann alla fine approda ad un desiderio erotico verso Tadzio
("Giacché, sappilo, noi poeti non possiamo percorrere la via della bellezza senza trovarvi Eros, che ben presto c’impone la sua guida"),
la fonte prima dell'esplosione interiore che lo muove per tutto il romanzo, e che lo accompagna poi alla morte,
non scaturisce dal desiderio sessuale in sé, ma dalla contemplazione della bellezza, della grande bellezza per la precisione.
Così anche Jeb Gambardella non è il sesso che cerca, di quello ne ha sempre trovato in abbondanza da, come dice lui, perderne il conto.
E' un'altra la molla:
A questa domanda, da ragazzi, i miei amici davano sempre la stessa risposta: "La fessa". Io, invece, rispondevo: "L'odore delle case dei vecchi". La domanda era: "Che cosa ti piace di più veramente nella vita?". Ero destinato alla sensibilità. Ero destinato a diventare uno scrittore. Ero destinato a diventare Jep Gambardella.
Altra scena emblematica è quella in cui Jep sveglia Ramona (Sabrina Ferilli) che aveva dormito a casa sua.
E per dormito si intende dormito, perché come aveva esplicitato subito Jep quello che lui cercava da lei era un rapporto platonico, di amicizia,
ed infatti esordisce con un: "E' stato bello non fare l'amore con te".
Quando la sveglia sembra morta, lei che spendeva tutti i suoi soldi per curarsi, ma in realtà era solo un momento di pigrizia,
di rievocazione della bellezza vista in quei pochi giorni assieme a Jep.
Per dirci che è morta, poco dopo, c'è una sola inquadratura: il padre distrutto che piange e viene fotografato da un paparazzo.
Una morte non più mostrata, ma fatta intuire, come quella di Andrea il figlio matto di Viola:
vediamo solo il primo piano di lui che sta guidando e tra il rassegnato e il deciso chiude gli occhi.
Se di Andrea vediamo il funerale (è un evento mondano: "si va in scena"), per Ramona neanche quello.
Perché la morte non è importante per Jep, e il motivo ce lo spiegherà alla fine.
L'acqua
Roma non è una città di mare, eppure l'acqua è una costante nella narrazione.
La morte del turista che apre il film avviene davanti al Fontanone e Jep compie molte delle sue lunghe passeggiate nei lungotevere.
C'è poi il piccolo scherzetto finale, quando partono i titoli di coda e gli spettatori più delusi o più impazienti si alzano e se ne vanno,
oppure spengono il DVD: non fatelo!
Dopo un anonimo schermo scuro dei primi titoli di coda, parte uno splendido piano sequenza girato da una barca che risale il Tevere con nuovamente la musica di David Lang in sottofondo.
Ma soprattutto quando Jep è sdraiato nel suo letto e guarda il soffitto vede il mare, e nel risveglio di Ramona che descrivevo prima, cerca di farlo vedere a anche a lei.
Il mare sono le sue radici: quell'unico amore che si era dato davanti al faro, e poi si è negato senza spiegare il perché.
Per Jep si tratta dell'acqua del battesimo del primo amore, ma anche dell'acqua della rinascita, alla fine, quando si decide a tornare al faro, alla scogliera, a sé stesso.
Il nulla
Ovviamente il nulla non è la morte, ma la mondanità, le sterili feste continue perpetrate da inutili personaggi senza dignità, senza obiettivi, consapevoli delle proprie miserie. Da Wikipedia:
Jep partecipa ogni notte a un teatrino confuso e annoiato di amici intimi e compagni di sventure («Siamo tutti sull'orlo della disperazione, non abbiamo altro rimedio che guardarci in faccia, farci compagnia, prenderci un po' in giro...»), tra i quali: Romano, scrittore teatrale mai realizzato e perennemente al guinzaglio di una giovane donna che lo sfrutta senza ricambiare il suo sentimento; Lello, ricco venditore all'ingrosso di giocattoli dalla parlantina sciolta e marito infedele di Trumeau; Viola, facoltosa borghese e madre di un ragazzo affetto da gravi problemi psichici di nome Andrea; Stefania, egocentrica scrittrice radical chic; Dadina, la direttrice nana del giornale per il quale Jep scrive.
Jep ha anche un misterioso vicino di casa che non gli rivolge la parola e lo guarda sprezzante, silenziosamente, dall'alto del suo balcone.
In una scena quasi profetica scopriamo ad un certo punto che questo misterioso vicino era Giulio Moneta,
"uno dei 10 latitanti più ricercati del mondo", un chiaro riferimento a Matteo Messina Denaro quanto mai attuale in questi giorni.
Alla richiesta di Jep "Ma lei chi è?", con una splendida ironia Giulio Moneta (dal solito balcone, ma con la polizia che lo sta arrestando) risponde:
Un uomo laborioso. Uno che mentre lei trascorre il tempo a fare l'artista... e a divertirsi con gli amici, fa andare avanti il Paese. Io, faccio andare avanti questo Paese, ma molti ancora non lo hanno capito.
Questo è forse il punto di vista più basso di quella cerchia decadente e mondana: perfino un mafioso si sente più utile di loro.
Ma se un po' tutti quelli che scrivono di questo film si concentrano sulla mondanità come decadenza,
in realtà c'è una derisione, uno svilimento, un'accusa ben più grave che emerge direttamente, ma anche per contrasto,
ed è quella verso l'arte contemporanea.
Direttamente quando, ad esempio, Jep intervista Talia Concept, "una che dà capocciate sui muri", evidenziandone il nulla culturale, il vuoto di contenuti.
Per contrasto invece alternando continuamente una certa arte contemporanea all'arte classica, ai monumenti di Roma,
anche a quelli più nascosti a cui si accede tramite il misterioso personaggio di Stefano.
Il sacro e il profano
In mezzo al nulla appare piano piano qualcosa che mai ti aspetteresti in un contesto simile.
Se il sacro è ciò che è dentro il tempio, profano, pro-fanum "davanti al tempio", è tutto ciò che sta fuori.
E se in Roma una volta la religiosità era sia dentro che fuori i templi (sia pagani prima che cristiani poi),
oggi fuori dai templi c'è il nulla.
E il massimo esperto di nulla, Jep Gambardella, sorprendentemente comincia a farsi delle domande, e a fare delle domande.
Solo che il primo interlocutore è sbagliato: il cardinale Bellucci è palesemente più interessato alla cucina che alle questioni spirituali.
Ma l'occasione giusta si presenta poi con l'arrivo di suor Maria, soprannominata "La Santa", con la quale Sorrentino si diverte a prendere in giro lo spettatore.
Dapprima la fa sembrare una montatura, una vecchia di 104 anni che non è neanche più del tutto lucida, e che sembra parlare solo per voce del proprio assistente,
il quale ne favoleggia imprese difficilmente credibili.
Poi emerge la verità, si vede che è veramente una santa, che veramente dorme per terra, che veramente fa la scala santa in ginocchio.
E al culmine di un piccolo miracolo dà al Gambardella la dritta giusta: "Sapete perché mangio solo radici? Perché sono importanti".
E le radici di Gep non sono a Roma ma all'isola del Giglio.
Fellini
Con una certa superficialità sia i sostenitori che i detrattori di questo film lo paragonano a
"La dolce vita".
Indubbiamente il paragone ci sta in pieno, nel bene e nel male, cioè sia nelle somiglianze che nelle differenze,
queste ultime assolutamente inevitabili data la distanza tra i due periodi storici.
Però a mio avviso tutto ciò non ci porta lontano, non ci dà molto.
Molto più interessante invece è il paragone con
"La voce della luna",
l'ultimo capolavoro del regista riminese.
Per iniziare direi che potremmo riprendere la definizione sopra riportata di Alessandra Starace per il film di Sorrentino,
"un film disorganico, opulento, frammentario e sfacciato", e riadattarla al film di Fellini sostituendo solo il termine "sfacciato"
con "onirico" ("La voce della Luna è "un film disorganico, opulento, frammentario e onirico" senz'ombra di dubbio).
E viceversa la citazione riportata all'inizio di questa pagina in cui Fellini parla del sul suo film, si può adattare così com'è a quello di Sorrentino.
Poi riprendendo quanto detto sopra a proposito dell'inizio film al Fontanone, anche per Fellini il film inizia dalle prime scene con la morte,
e parte infatti in un cimitero.
E' una morte più grottesca e più poetica: l'oboista che si è rifugiato nel loculo,
facendo spuntare la testa dal buco e guardando il cielo fa chiaramente il verso alla famosa illustrazione ripresa da Flammarion,
"Un missionnaire du moyen âge raconte qu'il avait trouvé le point où le ciel et la Terre se touchent".
E come non accostare la Gnoccata del film di Fellini alle feste romane di Sorrentino?
Certo la prima è più ruspante mentre le seconde sono più kitsch, ma il senso è quello.
Il contrasto su cui insiste di più Sorrentino riguarda l'arte figurativa: contemporanea vs classica.
Fellini invece questo contrasto lo gioca tutto in una sola scena, che però a mio avviso da sola vale molti film.
Il prefetto Gonnella (un magistrale Paolo Villaggio) arriva in una sorta di affollata discoteca dove l'assordante musica insistente sulle percussioni, tipica delle discoteche, lo disgusta;
e magicamente si fa il largo attorno a lui lasciandolo danzare con un'attempata signora un valzer mentre dice:
Ma certo. Che ne potete sapere voi? Avete mai sentito il suono di un violino? No.
Perché se aveste ascoltato le voci dei violini come le sentivamo noi, adesso stareste in silenzio, non avreste l'impudenza di credere che state ballando.
Il ballo è un ricamo. È un volo. È come intravedere l'armonia delle stelle. È una dichiarazione d'amore. Il ballo è un inno alla vita!
Questo è un ballo di coppia, non l'anarchico ballo individuale moderno iniziato con la disco music e figlio della musica riprodotta.
Infine, per concludere questo elenco che non vuole essere certo esaustivo, diciamo che entrambi i film vanno dalla morte alla vita,
e per Ivo Salvini la rivelazione finale che lo porta a nuova vita è quella che gli darebbe la voce della luna, se si potesse sentire:
"Eppure io credo che se ci fosse un po’ di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire".
E questa è la stessa rivelazione finale che ha Jep Gambardella!
Finisce sempre così. Con la morte. Prima, però, c'è stata la vita, nascosta sotto il bla bla bla bla bla.
È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore.
Il silenzio e il sentimento. L'emozione e la paura. Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza.
E poi lo squallore disgraziato e l'uomo miserabile. Tutto sepolto dalla coperta dell'imbarazzo dello stare al mondo. Bla. Bla. Bla. Bla.
Altrove, c'è l'altrove. Io non mi occupo dell'altrove. Dunque, che questo romanzo abbia inizio. In fondo, è solo un trucco.
Sì, è solo un trucco.
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