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Prima scena: Breakfast at Tiffany's - Edward Hopper: Nighthawks - Seconda scena: Perfect Days - Caspar David: Der Wanderer über dem Nebelmeer - Non è una questione geografica
Prima scena: Breakfast at Tiffany's
Si tratta proprio della primissima scena di
Colazione da Tiffany.
E' l'alba a New York, la Quinta Strada è deserta, arriva un taxy scende una signora, una ragazza, elegantissima, paga il tassista e si posizione davanti alle vetrine della
celebre gioielleria.
Nella mano sinistra tiene il solito bicchierone con quel beverone che negli USA chiamano caffè (acqua colorata per noi italiani) e contemporaneamente anche un sacchetto di carta
dal quale con la destra estrae una brioches e fa colazione.
Lo sguardo è assorto, c'è un silenzio innaturale per la normalità dell'avenue più famosa di New York, cioè della metropoli più famosa del mondo.
Sembra poco e invece questa scena ci racconta molte cose, anche senza sapere niente del resto del film.
E' arrivata in taxi, e non in bicicletta e metropolitana, è elegantissima ed ha anche un bel collier, eppure guarda solo le vetrine.
E' arrivata di mattina prestissimo con un vestito da sera: è stata evidentemente in giro tutta notte e fa colazione prima di tornare a casa.
E' chiaro che se potesse permettersi di fare spesa in questa che è una delle più care gioiellerie del mondo,
sarebbe venuta in orario di apertura e non starebbe fuori a guardare le vetrine.
Insomma: Holly Golightly è benestante, ma non è ricca. Vorrebbe ma non può.
Scopriamo poi nel corso del film che si barcamena: fa da tramite tra un mafioso in prigione e il suo avvocato per 50 dollari al messaggio, frequenta l'alta società newyorkese,
ha appuntamenti con uomini ... insomma come direbbe Nanni Moretti: "giro, vedo gente, mi muovo, conosco, faccio delle cose ...".
Edward Hopper: Nighthawks
A questa scena associo spudoratamente un quadro altrettanto famoso:
"Nighthawks" di
Edward Hopper.
Apparentemente diverse, queste due immagini ci mostrano lo stesso vuoto esistenziale.
La prima clamorosa sensazione che ci trasmette il quadro è quella del silenzio.
Solo un grande artista come Hopper poteva con qualcosa di figurativo trasmettere qualcosa di "sonoro",
non la luce, non il colore ma, come cantavano Simon e Garfunkel, "The sound of silence", "Il suono del silenzio".
Se come orario siamo nella parte opposta della giornata, nella tarda serata rispetto alla prima mattina di Tiffany,
come suoni siamo nella stessa situazione: il resto del mondo è rinchiuso in casa e un assordante silenzio è presente per le strade,
ma è altresì presente di là delle vetrine, quindi così come nella gioielleria non ancora aperta al pubblico, succede anche nel bar,
che pur essendo aperto ospita un barman che silenzioso fa il suo lavoro e tre clienti, soli e stanchi con i propri pensieri.
Nessuno comunica, nessuno parla, solo il vuoto riecheggia attorno a quel bancone.
Ad amplificare l'aspetto surreale nella scena ci sono i colori a partire dal verde del marciapiede,
proseguendo con le tonalità di giallo della luce degli interni, contrapposta all'oscurità che però non è totale, è una sorte di limbo.
La situazione è totalmente artificiale e contemporaneamente molto triste.
L'essere al di qua della vetrina come Holly Golightly e guardare dentro sognando,
e l'essere al di là della vetrina come i tre avventori e il barista di Hopper ci suggeriscono la stessa cosa: questa non è certo la felicità.
Certo non è la sofferenza, non è il dolore, non è la disperazione più assoluta.
Però è il vuoto, il nulla, lo smarrimento totale di fronte alla vita.
Seconda scena: Perfect Days
Si tratta della scena iniziale anche per questo capolavoro (e non esagero!) di
Wim Wenders.
Però come dovrebbe suggerire il plurale del titolo questa scena iniziale viene poi ripetuta più volte, perché non si tratta di un singolo giorno perfetto,
come nell'incantevole canzone di Lou Reed che fa parte anche della colonna sonora, ma i "giorni perfetti" in
"Perfect Days"
sono tutti. Tutte le giornate di Hirayama, il protagonista, sono perfette.
Siamo a Tokyo, in un quartiere periferico, e l'orario è esattamente quello di "Colazione da Tiffany", ovvero le prime luci dell'alba.
Però il protagonista in questo caso non è già sveglio, non ha passato la notte insonne a fare chissà cosa:
è prima mattina, stava dormendo e si è svegliato da solo, senza sveglia, forse sentendo quel piccolo rumore in sottofondo della signora che spazza la strada davanti al tempio buddista.
Hirayama va in bagno, si lava i denti, si veste, dà da bere ai bonsai, prende le chiavi ed esce di casa.
E qui, a mio avviso, più che in altre parti sta il punto focale del film: il protagonista apre la porta di casa, si affaccia all'esterno, guarda il cielo e ... sorride.
Allorquando l'occidentale medio normalmente impreca iniziando una giornata di lavoro, Hirayama sorride.
Credo di poter azzardare l'affermazione: Hirayama è felice.
In un certo senso il film potrebbe finire qua, il seguito rappresenta solo un tentativo di spiegare quello che è appena stato mostrato.
E' un tentativo, perché come cantava Guccini: "è difficile spiegare / è difficile capire / se non hai capito già".
Hirayama prende la colazione ad un distributore automatico, monta sul furgone del lavoro e fin che guida ascolta le sue vecchia musicassette di rock anni '70/'80.
Poi inizia il suo lavoro di addetto alle pulizie dei bagni, lavoro a cui dedica la massima cura, dedizione e attenzione.
Uno dei lavori più umili in assoluto, uno dei meno retribuiti, uno di quelli a cui va meno riconoscenza da parte degli usufruitori.
Eppure Hirayama ogni mattina prima di andare al lavoro guarda al cielo e sorride felice.
Caspar David: Der Wanderer über dem Nebelmeer
"Perfect days" non è un film semplicemente "giapponese" (nonostante il regista tedesco), ma è qualcosa in più: è un film che interpreta lo "zen".
Se il Satori
possiamo definirlo (ma qualsiasi definizione è destinata ad essere errata e fuorviante nello zen) l'intuizione che permette la
"visione del cuore delle cose", ecco che il nostro Hirayama sembra essere ad un passo da essa.
A questo punto sarebbe stato d'obbligo associare come quadro alla scena del film un'immagine giapponese, buddista o quantomeno orientale.
Eppure a me sembra che questo quadro del pittore romantico per eccellenza,
Caspar David,
centri perfettamente l'obbiettivo.
Abbiamo un viandante, un escursionista come diremmo oggi, che salito in quota contempla il paesaggio.
Ma ciò che vede non è un panorama alpino da cartolina col sole, le verdi vallate e le mucche felici, bensì un "Nebelmeer",
letteralmente un mare di nebbia.
La ricompensa di tutta la fatica per compiere l'ascensione è quella versione indistinta della realtà a valle.
Attenzione però: non è il nulla, è la nebbia che tutto contiene al suo interno, e infatti il nostro protagonista è fermo a rimirarla, palesemente affascinato;
non è seduto, affranto, che pensa "tanta fatica per niente".
Così Hirayama è ricompensato del suo impegno, delle sue quotidiani fatiche, dalla visione della realtà apparentemente confusa del cielo,
che continuamente fotografa e a cui sorride ogni mattina, dalla realtà delle persone che incontra, dalla musica.
Si tratta di una realtà che da una parte esige il suo massimo impegno, come quando si accovaccia attorno al water per lavarlo
analizzandolo in dettaglio per trovare anche la minima traccia di sporco, ma è anche una realtà che va presa con distacco:
i bagni che ha appena pulito dopo una mezz'ora saranno di nuovo sporchi.
E' l'azione che conta, non il risultato.
Bisogna fare la cosa giusta senza aspettarsi il risultato:
la madre che ritrova il suo bambino guarda a questo strano uomo che lo sta accompagnando con sospetto, la sorella non capisce il fratello e lo guarda con commiserazione.
Viceversa la realtà vista dagli occhi di Hirayama è perfetta, anche se è un mare di nebbia.
Non è una questione geografica
Da quanto detto sopra potrebbe nascere un fraintendimento: gli statunitensi, accecati dal capitalismo e ossessionati dal consumismo,
sono incapaci di trovare il benché minimo senso di equilibrio nella propria vita, mentre i giapponesi legati alle proprie tradizioni
religiose si dimostrano più saggi e felici.
Assolutamente no!
Se mettiamo a confronto le due metropoli troviamo forse più vittime del capitalismo a Tokyo rispetto a New York,
al punto da avere in giapponese una parola dedicata per questo fenomeno, ovvero
Karoshi:
"è un termine giapponese che significa 'morte da superlavoro'.
Il Giappone è uno dei pochi paesi in cui questa categoria, le cui principali cause mediche sono attacco cardiaco dovuto a sforzo e stress,
è riportata nelle statistiche delle cause di morte.
Con Karojisatsu ci si riferisce al suicidio conseguente al prolungato impegno lavorativo".
Viceversa negli USA possiamo prendere ad esempio Henry David Thoreau con la solita abusata
(anche da me) citazione da
"Walden ovvero Vita nei boschi":
Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto. Non volevo vivere quella che non era una vita, a meno che non fosse assolutamente necessario. Volevo vivere profondamente, e succhiare tutto il midollo di essa, vivere da gagliardo spartano, tanto da distruggere tutto ciò che non fosse vita, falciare ampio e raso terra e mettere poi la vita in un angolo, ridotta ai suoi termini più semplici.
Come Thoreau anche Hirayama ha eliminato tutto il superfluo, ha distrutto tutto ciò che non è vita, e per non scoprire in punto di morte che non è vissuto,
vive la vita ogni attimo.
E infatti tra le poche, pochissime frasi che pronuncia in tutto il film troviamo il mantra "un'altra volta è un'altra volta, adesso è adesso"
che ripete insieme alla nipote andando in bicicletta.
Chi ne sa più di me
(ci vuol poco) dice che è una semplificazione del detto giapponese "yo ha kyo no kaze, ashita ha ashita no kaze"
(che ho trovato anche come "ashita wa ashita no kaze ga fuku"), ossia "oggi il vento di oggi, domani il vento di domani" o "il vento di domani soffierà domani"
(ashita-domani, kaze-vento e fuku-soffia, con i kanji neanche ci provo!).
Un'ultima nota sempre per evitare fraintendimenti: Holly non è Audrey. Non confondiamo il personaggio con l'attrice!
Di Audrey Hepburn e di questo suo personaggio ho accennato anche in
questa pagina.
Amo molto quest'attrice che oltre che brava è stata perfettamente umana e umile:
ha senz'altro interpretato perfettamente il personaggio, ma lei personalmente non era così.
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