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Oh, oh, oh, brutta specie di un aeroplano
Ma non ti accorgi che stando in alto vedi il mondo da lontano?
E per che cosa mi dovrei pentire? Di giocare con la vita?
E di prenderla per la coda, tanto un giorno dovrà finire
Eh, eh, e poi, all'eterno ci ho già pensato
È eterno anche un minuto
Ogni bacio ricevuto dalla gente che ho amato
(Lucio Dalla, "Siamo dei")
Come il gonnellino di Eta Beta - La genesi - Senza trama - La trama - I bambini - Gli angeli e gli uomini - Peter Falk - Berlino - Marion - Ricomponiamo i pezzi
Come il gonnellino di Eta Beta
Certo
"Il cielo sopra Berlino"
non è un film di nicchia, poco conosciuto, anzi direi che è un film cult decisamente famosissimo.
E Wim Wenders, di cui ho parlato anche in
questa pagina,
a mio avviso (ma non solo mio) fa parte dell'Olimpo dei registi che hanno fatto la storia del cinema.
Quindi perché parlarne quando in rete c'è pieno di commenti in buona parte più arguti, professionali e documentati del mio?
E' molto semplice: perché non so resistere. Il film è troppo bello, ma soprattutto è come il gonnellino di
Luigi Salomone Calibano Sallustio Semiramide, per gli amici
Eta Beta,
(e per gli aglofoni Eega Beeva, ovvero Pittisborum Psercy Pystachi Pseter Psersimmon Plummer-Push).
Come recita Wikipedia: "Le tasche del suo gonnellino hanno una capienza smisurata tanto che da esse riesce a estrarre all'occorrenza oggetti a non finire,
anche di grandi dimensioni come motorini, elicotteri o imbarcazioni".
Per l'appunto da questo film si può tirare fuori di tutto, e chissà che in questo tutto anch'io non possa dare qualche spunto interessante
(non per capacità personale, ma per calcolo delle probabilità: aumentando i tentativi qualche centro potrei anche farlo).
Nel fare tutto questo mi sento parecchio in colpa: non sarebbe giusto in generale parlare di questo film, sarebbe giusto guardarlo e basta,
lasciare che penetri in noi col linguaggio dell'arte e non con quello della prosa.
Ancora più ingiusto è smembrarlo come sto facendo io, analizzandolo per elementi, con analogie, riferimenti;
sono consapevole che è una cosa orribile, ma è più forte di me, mi basta vedere anche un solo fotogramma per sentirmi stimolato a parlarne.
Quindi ... sarò prolisso, il lettore è avvertito.
La genesi
L'idea e gli spunti sono ben sintetizzati con le parole di Wenders stesso (che possiamo trovare sempre su
Wikipedia), dove cita le
"Elegie duinesi"
di Rainer Maria Rilke e la tesi dell'"angelo della storia" di Walter Benjamin a sua volta correlato con il quadro di Klee
Angelus Novus.
Quest'angelo, secondo Benjamin, è voltato verso il passato dove c'è una "sola catastrofe che accumula incessantemente macerie su macerie".
Facile ritrovare questa tesi nel colloquio tra i due angeli, Damiel e Cassel, mentre passeggiando in una piazzetta rievocano la storia dell'umanità,
in particolare delle guerre, fino alla loro origine nella storia.
Anche per le "Elegie duinesi" è facile trovare riscontro nel film, nonstante questo sembri contraddire la prima elegia:
Chi se io gridassi mi udirebbe mai
dalle schiere degli angeli ed anche
se uno di loro al cuore
mi prendesse, io verrei meno per la sua più forte
presenza.
Wer, wenn ich schriee, hörte mich denn aus der Engel
Ordnungen? und gesetzt selbst, es nähme
einer mich plötzlich ans Herz: ich verginge von seinem
stärkeren Dasein.
Ma in realtà la corrispondenza, c'è in qualche caso anche estetica, laddove ad esempio nella scena finale Wenders riproduce visivamente la strofa della seconda elegia:
Così vi promettete dall’abbraccio l’eternità, quasi
Eppure, quando superate la paura dei primi
sguardi, e la nostalgia alla finestra,
e il primo cammino insieme, un giro in giardino:
oh amanti, lo siete ancora? Quando verso la bocca l’uno dell’altra,
vi levate e porgete –: bevanda a bevanda:
oh come è strano poi il sottrarsi del bevitore all’azione.
So versprecht ihr euch Ewigkeit fast
von der Umarmung. Und doch, wenn ihr der ersten
Blicke Schrecken besteht und die Sehnsucht am Fenster,
und den ersten gemeinsamen Gang, ein Mal durch den Garten:
Liebende, seid ihrs dann noch? Wenn ihr einer dem andern
euch an den Mund hebt und ansetzt –: Getränk an Getränk:
o wie entgeht dann der Trinkende seltsam der Handlung.
Ma i riferimenti sono più profondi, ad esempio nella quarta elegia, dove Rilke esalta la purezza del bambino (vedi la poesia di Handke che inizia il film e viene ripresa a metà). E questa purezza del bambino è rubata dalla conoscenza, vedi la quarta elegia (chiedo scusa per la traduzione):
Eppure quando eravamo soli
eravamo felici di qualcosa che durava e stava lì
nello spazio tra il mondo e i giocattoli
in un luogo che nasce fin dall'inizio
per un processo puro.
Chi mostra un bambino così com'è? Chi lo colloca
tra le stelle e gli mette nelle mani
la misura della distanza? Chi si occupa della morte infantile?
Und waren doch in unserem Alleingehn
mit Dauerndem vergnügt und standen da
im Zwischenraume zwischen Welt und Spielzeug,
an einer Stelle, die seit Anbeginn
gegründet war für einen reinen Vorgang.
Wer zeigt ein Kind, so wie es steht? Wer stellt
es ins Gestirn und gibt das Maß des Abstands
ihm in die Hand? Wer macht den Kindertod
Senza trama
Antonin Artaud
credo che si possa definire senz'altro un estremista del teatro, secondo lui questa forma d'arte non avrebbe dovuto soggiacere alla tirannia del testo:
"Il teatro è prima di tutto rituale e magico (...) non è una rappresentazione. È la vita stessa in ciò che ha di irrappresentabile".
Ebbene il nostro film avrebbe potuto soddisfare pienamente le aspettative del drammaturgo francese,
cioè avrebbe potuto fare a meno di una trama vera e propria, avrebbe potuto basarsi solo sugli sguardi degli angeli che osservano e ascoltano,
sui visi tristi, talvolta angosciati degli esseri umani, sulle cicatrici di una Berlino in bianco e nero,
su quella ferita ancora aperta rappresentata dal muro, sulla musica di Nick Cave e di Crime & the City Solution,
sull'elegante volteggiare trapezistico di Marion/Solveig Dommartin, sulla serena e genuina curiosità di Peter Falk,
sulle riprese dall'alto dei monumenti, sulle riprese dal basso della miseria, sulle riprese dall'interno della quotidianità,
sulle riprese della disperazione.
"Avrebbe potuto" significa che sarebbe stato comunque un film meraviglioso.
Però Wenders non si è limitato, è andato oltre.
Anzi, molto oltre: ha reclutato un premio Nobel e ha scritto la sceneggiatura insieme a lui.
La trama
In conseguenza di quanto sopra rilevato non ho timori a fare spoiler della trama: non è un giallo, non è un poliziesco, non c'è nessun twist ending.
Per i diversamente intelligenti la trama si potrebbe sintetizzare così:
ci sono degli angeli che si aggirano invisibili tra gli uomini, ascoltano e osservano quel che fanno gli esseri umani,
possono essere visti solo dai bambini, ma a parte questo non possono interagire.
Ad un certo punto uno di questi angeli (ne vengono presentati in particolare due, Damiel e Cassel), già in parte desideroso di diventare umano,
si innamora di una ragazza che fa la trapezista in un circo e un giorno, dopo esserle apparso in sogno, l'angelo Damiel si incarna come essere umano perdendo le proprie peculiarità angeliche.
Dopo essersi procurato dei vestiti e dei soldi va alla ricerca della ragazza che faceva la trapezista in un circo, ma il circo non c'è più.
La cerca in un locale dove aveva già avuto occasione di seguirla e alla fine si trovano, innamorati a vicenda, con un perfetto happy ending.
Certo che riassunta così sinteticamente la trama sembra particolarmente stupida, banale.
Proviamo quindi a smembrare il film analizzandone i principali singoli aspetti, e poi ricomponiamo il tutto per vedere il risultato.
I bambini
Se le succitate "Elegie duinesi" hanno offerto uno degli spunti del film, è la poesia di Peter Handke "Lied vom Kindsein" (Elogio dell'infanzia) che fa da colonna sonora del film, recitata da una voce fuori campo che dà il senso di infanzia, di cantilena.
Quando il bambino era bambino,
se ne andava a braccia appese,
voleva che il ruscello fosse un fiume,
il fiume un torrente,
e questa pozza, il mare.
Quando il bambino era bambino,
non sapeva d'essere un bambino,
per lui tutto aveva un'anima
e tutte le anime eran tutt'uno.
Quando il bambino era bambino,
su niente aveva un'opinione,
non aveva abitudini,
sedeva spesso a gambe incrociate,
e di colpo sgusciava via,
aveva un vortice tra i capelli
e non faceva facce da fotografo.
Quando si parla di innocenza, di purezza dei bambini, ci si riferisce solitamente a virtù morali, o meglio ad un'assenza di malizia,
ad un'assenza di conoscenza che può comportare anche delle azioni negative in perfetta inconsapevolezza.
I bambini di Handke invece hanno una conoscenza primordiale, percepiscono l'unità del creato, non hanno ipocrisie con "facce da fotografo",
non hanno abitudini.
Come osserva giustamente Gio Evan, "abitudine", "abitare"/"abitazione" e "abiti", hanno lo stesso prefisso e, seppure in ambiti diversi,
indicano qualcosa con cui ci circondiamo per proteggerci.
Ma in questa protezione perdiamo le opportunità di nuove esperienze.
I bambini non sono così: sono pronti a nuove esperienze, e pur essendo immersi nella nostra stessa realtà, vedono qualcosa di diverso.
Tra le altre cose vedono gli angeli.
Poi però cominciano le domande.
Quando il bambino era bambino,
era l'epoca di queste domande:
"Perché io sono io e perché non sei tu?
Perché sono qui e perché non sono lì?
Quando comincia il tempo, e dove finisce lo spazio?
La vita sotto il sole è forse solo un sogno?
Non è solo l'apparenza di un mondo davanti al mondo quello che vedo, sento e odoro?
C'è veramente il male e gente veramente cattiva?
Come può essere che io che sono io non c'ero prima di diventare?
E che una volta io che sono io non sarò più quello che sono?"
Gli angeli e gli uomini
Gli uomini in generale hanno cinque sensi.
In realtà non c'è accordo neanche su questo perché qualcuno obbietta che oltre ai classici cinque (tatto, udito, vista, olfatto, gusto)
bisognerebbe anche conteggiare il senso di calore e il senso di equilibrio.
Non entro nel merito, ma anche considerandone solo cinque nel film gli angeli ne possiedono solo due, di cui uno potenziato e uno ridotto.
Quello potenziato è l'udito: oltre ai discorsi pronunciati dagli esseri umani possono sentire anche quel flusso di coscienza che tanto ha appassionato James Joyce.
Per quello che riguarda la vista invece sono perfettamente daltonici, e questo viene evidenziato nella pellicola con un favoloso bianco e nero
di cui il direttore della fotografia,
Henri Alekan era un maestro.
I discorsi degli angeli talvolta si soffermano sui sensi mancanti con un po' di invidia, in particolare da parte dell'angelo Damiel,
che infatti una volta diventato uomo si divertirà a memorizzare tutti i nomi dei colori che lo circondano,
e che cambierà d'abito solo per aver la possibilità di usare vestiti dai colori piuttosto vivaci.
Ma al di là del numero dei sensi disponibili, la vera differenza tra angeli e uomini è come viene vissuta la realtà:
gli angeli sono incuriositi e interessati da tutto, sia Damiel che Peter Falk si appassionano di tutto quello che li circonda.
Vivono l'attimo.
Gli uomini sono quelli della Berlino anni '80, ma potrebbero essere quelli dell'Italia del 2024 non cambia nulla.
Corrispondono perfettamente alla definizione data da Heidegger nel suo
"Essere e tempo":
sono immersi, gettati (geworfen) nel mondo, a differenza degli angeli che scelgono spontaneamente di entrare,
e sono pro-gettanti il futuro, cosa che li distingue dagli animali.
Ecco che ovunque si girano gli angeli sentono queste preoccupazioni per il futuro,
ma talvolta qualcuno guarda invece al passato con malinconia, cercando forse di sfuggire al futuro.
Quasi tutti vivono per lo più in una dimensione inautentica.
C'è l'eccezione del ragazzo che dalla cima del grattacielo della Mercedes non pro-getta, ma si getta.
Il suo flusso di pensieri è vuoto, quasi indifferente, forse anche atipico per chi decide di suicidarsi.
Sono i pensieri di chi è stanco e non trova un senso alla vita, non di chi vuole fuggire da un dolore.
La disperazione dell'angelo Cassiel accanto a lui è profonda: lui di solito così asettico di fronte ai piccoli guai umani, sorridente per le stranezze,
in questa occasione lancia un "NOOOO" così terribile che non trova riscontri in altre parti del film.
Un plauso all'attore Otto Sander che, in particolare in questa scena, ha recitato magnificamente.
Peter Falk
Peter Falk interpreta sé stesso nel film,
o meglio: quasi sé stesso, perché durante il secondo incontro con l'angelo Damiel, quando questi è diventato uomo ormai,
Peter Falk (chi non ha visto il film mi scusi per lo spoiler) rivela di essere stato anche lui un angelo e di aver seguito lo stesso percorso di Damiel, compresa la vendita della corazza.
La cosa che dovrebbe insospettire prima della rivelazione è il suo flusso di coscienza.
Quando si siede davanti alla comparsa per farle il ritratto, è sereno, sta vivendo l'attimo, ammira la signora, diciamo pure "non giovane e non bella", che ha di fronte e pensa:
"Le comparse sono fantastiche. E che pazienza che hanno".
Gode nel fare i ritratti e gode nel passeggiare per Berlino andando nei chioschi.
E quest'ultimo particolare vale sia per la parte recitata che per backstage: finite le scene che doveva recitare l'attore si è fermato una settimana in più,
e in un'occasione lo hanno anche fatto cercare dalla polizia perché sembrava che fosse scomparso, ma poi l'hanno trovato tranquillo in un bar.
Peter Falk era il tenente Colombo, ma anche in questa serie recitava e allo stesso tempo era lui, il personaggio gli calzava alla perfezione,
ed è per questo che Peter Falk era perfetto per fare l'angelo.
Wenders ha raccontato che avevano bisogno di un attore di Hollywood per avere visibilità internazionale, e quando al telefono hanno proposto a Falk la parte,
questi ha giustamente chiesto di leggere la sceneggiatura. Con imbarazzo Wenders confessò che non avevano ancora una sceneggiatura, e l'altro accettò.
Probabilmente se l'avessero avuta non avrebbe accettato.
Il meccanismo dei telefilm del tenente Colombo è il
howcatchem (come incastrarlo?)
il rovesciamento del "whodunit" (chi è stato?) del giallo classico: nei vari episodi le prime cose che si vedono, ancora prima dell'apparizione del protagonista,
sono il movente, il modo e l'assassino. Quando arriva il tenente Colombo lo spettatore sa già tutto, ma anche l'investigatore sa già chi è il colpevole,
e infatti gli starà addosso per tutto il tempo.
Tutto questo per evidenziare una cosa: a parte il lato investigativo, che forse rappresenta meno della metà del fascino del personaggio,
è stato il lato umano a consacrare Peter Falk come Colombo.
Infatti nella finzione, oltre a presentarsi in modo sempre educato seppur sciatto per farsi sottovalutare, Colombo/Falk si muove come un bambino nel paese dei balocchi:
è affascinato da tutto, incuriosito da tutto, sempre entusiasta.
Tale e quale lo possiamo vedere nel film: entusiasta, curioso, attento. Il quadernetto stavolta non serve per prendere appunti delle indagini, ma per fare ritratti.
Insomma nel ruolo dell'attore hollywodiano/ex angelo poteva esserci solo lui, Peter Falk.
Berlino
"A Berlino ci son stato con Bonetti / era un po' triste e molto grande" cantava il grande Dalla, ed era il 1977, esattamente dieci anni prima del nostro film che è del 1987,
ma la situazione era abbastanza analoga: le ferite della grande guerra si stavano ancora rimarginando e la cicatrice rappresentata da muro era onnipresente nella città.
Come la battuta di Marion che citavo anche in
questa pagina:
"Berlino: qui sono straniera e tuttavia è tutto così familiare. In ogni caso non ci si può perdere: s'arriva sempre al muro".
(Qui e
qui ci sono altre mie immagini di Berlino).
Erano anche gli anni di
"Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino",
il libro era del 1978 e il film del 1981, con la sua drammatica denuncia sulla piaga dell'eroina.
Eppure Berlino era una città viva, musicalmente parlando più viva che mai. Erano gli anni in cui David Bowie era venuto ad abitarci insieme a Brian Eno,
ma per restare in ambito italiano erano gli anni in cui
Garbo cantava "A Berlino... va bene",
Lucio Dalla si sedeva silenziosamente di notte davanti al Check Point Charlie
e componeva Futura, accanto ad un inconsapevole Phil Collins.
Erano gli anni in cui a Berlino i
Crime and the City Solution
registravano i loro album e
Nick Cave da poco trasferitosi a Berlino Ovest,
aveva appena fondato i Nick Cave and the Bad Seeds (entrambi i gruppi sono presenti nel film).
Erano gli anni della
New wave, ma forse sarebbe meglio dire della
Neue Deutsche Welle.
Insomma Berlino era viva più che mai, e si stava preparando per il crollo del muro.
Marion
Marion è un angelo, ma non un angelo come Damiel e Cassiel, e soprattutto non come Lola la protagonista de
"L'angelo azzurro",
quella che rovina il povero professor Rath ("Sapevo che sarebbe tornato. Da me ritornano tutti.").
Marion è un angelo che ha anche le ali nella prima scena in cui la vediamo.
Marion è un angelo che vediamo nel suo processo di crescita, da donna che ha sempre intuito qualcosa a donna consapevole di sé, del suo destino, del mondo.
Due sono i suoi monologhi principali: uno interiore fatto sul trapezio, quando il proprietario del circo annuncia la chiusura ("siamo falliti")
e l'altro è quello finale del film, al bancone del bar quando parla non interrotta all'ex angelo Damiel.
Il primo monologo è quasi di stupore: "Il circo mi mancherà. È buffo, non sento niente. È la fine e non sento niente".
Si sta per chiudere un capitolo della sua vita, finisce un sogno quello del circo, ma non è del tutto angosciata:
"Ho paura di questa sera. È idiota. L’angoscia mi fa male perché solo una parte di me ha l’angoscia e l’altra non ci crede. Come devo vivere?",
ma in realtà quello che le manca è altro: "Nostalgia, nostalgia di un’onda d’amore che salga dentro di me".
Poi alla fine succede l'incredibile: l'angelo che le era apparso in sogno è al bancone del bar, lo riconosce anche se è di spalle.
Qui altri sceneggiatori e altri registi avrebbero chiuso con una banale scena da bacio, ma noi stiamo parlando di Wenders e Handke,
e c'é un monologo quasi surreale con l'ex angelo Damiel che sta zitto, lei che racconta la sua vita con frasi che sembrano ripercorrere le domande del "bambino quando era un bambino" di Handke:
"Queste persone erano i miei genitori. Ma avrebbero potuto essere altri.
Perché questo ragazzo dagli occhi castani era mio fratello e non il ragazzo dagli occhi verdi sulla banchina di fronte?
La figlia del tassista era mia amica. Ma avrei potuto anche mettere un braccio intorno al collo di un cavallo".
Prima ancora: "Deve finalmente diventare una cosa seria. Sono stata spesso sola, ma non ho mai vissuto da sola", poi: "Non sono mai stata sola né quando ero sola, né con gli altri";
come non riconoscere Heidegger? "Per numerosi che siano i presenti, l'Esserci può restare solo".
Infine arriva alle religioni orientali, che vedono l'universo che si muove all'unisono:
"Non solo l'intera città, il mondo intero sta prendendo parte alla nostra decisione".
Ricomponiamo i pezzi
Una frase di Marion è poi inconfondibile: "Noi due ora siamo più di noi due". E' la
Gestalt!
Anche se a voler essere pignoli (vedi il link sopra) la Gestalt era andata un passo oltre usando
"la famosa massima: 'Il tutto è diverso dalla somma delle sue parti' (Das Ganze unterscheidet sich von der Summe seiner Teile)
per evitare l'equivoco con 'Il tutto è più che la somma delle sue parti' (Das Ganze ist mehr als die Summe seiner Teile)".
Anche noi mettiamo tutto insieme e vediamo che l'intero non è solo la somma di una storia d'amore, una storia di angeli, un ritratto di Berlino, delle poesie, delle musiche e quant'altro detto fin qua.
L'intero film è un inno alla vita!
Della vita fanno parte anche la morte e le sofferenze, ma non ne fa parte il suicidio, la resa totale, l'unico episodio su cui gli angeli non sorridono ma si disperano.
Chissà cosa avrebbe detto
Gabriele D'Annunzio
di questo film?
o Vita, o Vita,
dono dell’Immortale
alla mia sete crudele,
alla mia fame vorace,
alla mia sete e alla mia fame
d’un giorno, non dirò io
tutta la tua bellezza?
[...]
Sorgi. Assai dormisti. L’amico
divenuto sei della terra?
Odi il vento. Su! Sciogli! Allarga!
Riprendi il timone e la scotta;
ché necessario è navigare,
vivere non è necessario.
(Gabriele D'Annunzio, "LAUS VITÆ")
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